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venerdì 21 febbraio 2014

      POST N5 BAGLIVO ADALBERTO


      Mozart e Da Ponte: il misterioso “backstage”


W. A. MOZART
Come è noto, non si conosce assolutamente nulla intorno alle modalità concrete della lunga collaborazione di Lorenzo Da Ponte e Mozart in relazione alla trilogia italiana (1786-90). Il musicista, sebbene discreto grafomane, non dedica una riga alla gestazione delle tre opere destinate, più di qualunque altro suo lavoro, a sancirne l’eterna gloria; Da Ponte, pur scrivendo in continuazione e pur avendo pubblicato a più riprese fluviali autobiografie (Storia compendiosa della vita di Lorenzo Da Ponte, 1807; An Extract from the Life of Lorenzo Da Ponte, 1817;Memorie di Lorenzo Da Ponte, 3 vol., 1823) liquida sempre entro formule generiche e sommarie la lunga collaborazione con Mozart senza mai addentrarsi nel minimo dettaglio. Questa inconsueta modestia, in un letterato che tutto poteva dirsi fuor che umile, appare sospetta. L’argomento è talmente importante che probabilmente il poeta preferisce non lasciarsi andare a eccessive, imprudenti invenzioni fantastiche (come spesso gli accade, rendendo purtroppo largamente inattendibili le sue testimonianze) e si mostra quindi essenziale fino alla reticenza. In particolare ci colpisce un passo alquanto bizzarro (presente in Extract from the Life..., 1817): “sia che i miei versi vengano chiamati poesia, o prosa misurata, oppure veicolo, ecc., osserverò solamente che Mozart deve essere stato soddisfatto di essi, giacché dopo il primo ed il secondo dei miei drammi fu felice di averne un terzo; che li abbellì con moltissime note deliziose, con le quali voi eravate altrettanto soddisfatti; e che per altri versi avrebbe sicuramente composto un’altra musica... ”. Ora le affermazioni del librettista appaiono oltremodo “distanti” dalla scena creativa: egli si addentra per una volta in argomento ma sembra non avere niente da riferire, non una conversazione o una semplice, diretta frase di Mozart intorno alla qualità dei suoi libretti. Da Ponte sembra ipotizzare la soddisfazione di Mozart come quella di un musicista residente in una città lontana al quale ha inviato i suoi lavori, pregandolo di metterli in musica. Da Ponte sembra non conoscere il Mozart operista (poiché non vi sono dubbi sul fatto che conosceva e frequentava l’uomo Mozart) e le sue parole suonano ambigue. Senza accorgersi forse ha lasciato trapelare qualcosa di molto importante: manca una sua testimonianza sul processo creativo della trilogia taliana poiché forse non vi partecipò direttamente, non vi prese parte nel modo in cui noi lo immaginiamo, fianco a fianco del compositore, pronto a discutere ogni dettaglio (letterario o teatrale) della costruzione drammatica. Se così fosse, rimane da chiarire quale fu l’esatta genesi della celebrata trilogia.
Lorenzo Da Ponte
Innanzitutto è da scartare la sfrontata ricostruzione dello stesso Da Ponte che nelle sue memorie si attribuisce tutti i meriti delle scelte dei soggetti delle Nozze e del Don Giovanni. Al contrario il librettista fu in ambito decisionale una figura del tutto secondaria. Le testimonianze certe e decisamente enigmatiche riguardano il vero committente delle Nozze ossia Giuseppe II. In una ben nota lettera del gennaio 1785 al conte Pergen, l’imperatore scrive: “apprendo che la nota commediaLe mariage de Figaro è stata proposta, in traduzione tedesca, per il Teatro di Porta Carinzia. Ora, siccome questa pièce contiene molte indecenze, ritengo che il censore la debba rifiutare del tutto, pure vi debba apportare ritocchi...”; in seguito egli decide di affidarne una versione in italiano a Mozart e incarica l’intendente dei teatri, conte Rosenberg, di seguire l’intera faccenda. Scrive infatti Leopold (il 2 novembre 1785), commentando con altri la nota lentezza del figlio a completare i lavori: “Voglia Iddio che l’azione venga bene... chissà per quanto tempo avrà rinviato la cosa, prendendosela comoda, al solito suo, ma ora deve darci dentro di buzzo buono perché il conte Rosenberg lo sta tallonando” (non può non tornare alla mente la famosa lettera di Melchior Grimm da Parigi del luglio 1778 in cui avvisava Leopold che Mozart “il est zu treuherzig, peu actif, trop aisé à attrapper, trop peu occupé des moyens, qui peuvent conduire à la fortune” e sostanzialmente lo liquidava, consigliandogli vivamente di tornare a Salisburgo). Quindi l’intera macchina statale si muove alle spalle di Mozart e Da Ponte per favorire la messa in scena delle Nozze. Perfino il compositore tedesco Joseph Martin Kraus scrive da Parigi il 26 dicembre 1785 a Nannerl che Mozart “lavora in questo momento al suo Figaro, un’opera comica in quattro atti”: il fatto era quindi di dominio pubblico (d’altronde la programmazione del Burgtheater doveva essere già stata approntata all’inizio dell’autunno 1785); stupisce tuttavia che fosse perfino noto i numero degli atti, un numero (quattro) per la verità piuttosto inconsueto nelle abitudini dell’opera italiana (la commedia di Beaumarchais è in cinque atti).
Il problema che si pone è evidente: che rapporto esiste tra il Singspiel Der lustiger Tag oder Figaròs Hochzeit (musiche di autore anonimo) che gira in Germania eseguito dalla compagnia Grossmann (quella di Bonn) nel 1785-86 (Taboga nella sua biografia di Andrea Luchesi cita le rappresentazioni dell’11 aprile 1785 a Francoforte, del 10 luglio 1785 a Donaueschingen e del 23 febbraio 1786 a Magonza), vietato da Giuseppe II e in qualche modo “sostituito” con il lavoro commissionato a Da Ponte - Mozart? Si può forse ipotizzare che, come ironizza Casti (vedi oltre), la musica è già pronta e il testo va steso “in quattro dì”? Il libretto è realmente originale o è un adattamento di quello del Singspiel tedesco (come Don Giovanni lo sarà di quello di Bertati)? D’altronde Da Ponte non è una grande mente creativa: come giustamente rileva Casti, egli soprattutto sa aggiustare cose di altri (è della medesima opinione lo studioso Otto Michtner che nel suo testo Das alte Burgtheater als Opernbühne, 1970, scrive: “non si poteva chiamarlo poeta nel vero senso della parola; in lui spiccava soprattutto la capacità di modificare il materiale già esistente rendendolo adatto all’opera e armonizzandolo con le intenzioni del compositore”); si pensi poi che anche il Così fan tutte nasce come “remake” della acclamata Grotta di Trofonio di Salieri - Casti (Vienna, ottobre 1785).
Se l’idea di un Mozart falsario è certamente poco consona al mito creato intorno alla figura, va comunque ricordato che, all’interno della vasta opera del salisburghese, casi di aperto plagio sono ormai assodati, sebbene relativi a episodi minori. E’ certo che un’aria del Mitridate (Milano, 1770) venne totalmente copiata dal Mitridate (Torino, 1767) di Quirino Gasparini (se ne è accorta solo nel 1991 la studiosa Rita Peiretti) mentre in un’altra della medesima opera Mozart riprende un tema da La Nitteti (Bologna, 1770) di Myslivecek. Su importanti riviste musicologiche tedesche sono comparsi due articoli (negli anni cinquanta e ottanta) esplicitamente intitolati “Mozart ha copiato” in riferimento a pagine minori del repertorio sacro. In definitiva questo prendere qua e là ciò che serviva era un fatto comune in un’epoca in cui non esistevano ancora l’Artista Romantico, i concetti di Ispirazione, di Unicità dell’Opera e di Poetica tipici dell’Ottocento. Comporre era solo un lavoro che dava introiti e fama e lo si sbrigava come veniva, a seconda delle opportunità e delle circostanze.
A tale riguardo giova ricordare quanto scrive il Burney nel suo Viaggio musicale in Germaniaeffettuato nella seconda metà del 1772. In questo testo, tutt’altro che elogiativo della situazione musicale tedesca, descritta come modesta e totalmente dipendente dalla presenza fondamentale dei maestri italiani nelle corti, l’autore afferma: “oggi tutti i compositori di opere buffe francesi imitano lo stile italiano e alcuni saccheggiano senza il minimo scrupolo le opere buffe italiane, ponendo poi la propria firma sull’oggetto del furto che passerà così per opera loro in tutto il mondo”. Come si vede la pratica del falso (in genere partendo da composizioni italiane il cui stile Burney definisce “linguaggio comune a tutta l’Europa, diffusosi per l’unanime consenso di quanti possiedono un orecchio sensibile al godimento dei suoni ed esprimono liberamente i loro sentimenti”) era un fatto assai esteso.

http://conquest.imslp.info/files/imglnks/usimg/c/c0/IMSLP246993-PMLP03845-Marriage_of_Figaro.mp3


FILE MP3


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Una grotta miracolosa
Dopo il clamoroso smacco del Ricco d’un giorno (1784), primo libretto fornito da Da Ponte a Salieri (FILE PDF), il compositore italiano torna a collaborare con Casti e produce La grotta di Trofonio, uno dei suoi massimi successi e una delle opere più popolari del decennio nella capitale asburgica. Vi si racconta di due coppie ben assortite: Dori e Polistene - Ofelia e Artemidoro. La prima è dedita a riflessioni intellettuali, discute dei dialoghi di Platone e viene dipinta con i moduli dello stile serio; la seconda è allegra e viene descritta con i vocaboli dell’opera buffa italiana. Si intromette però Trofonio, dipinto con i solenni e corposi colori dell’orchestra di Gluck (FILE PDF): nella sua grotta chi entra da una certa porta ed esce da un’altra cambia radicalmente carattere; così Polistene diviene vivace e Artemidoro serioso; nell’elaborato Finale primo (vera summa stilistica) l’azione regna sovrana, lo sconcerto è evidente, il caos totale. Nel secondo atto i fidanzati rientrano nello speco e tornano normali; è poi la volta delle fanciulle che non sanno resistere alla curiosità indotta dal mago; anche loro tornano radicalmente mutate: nuovo sconcerto e finale chiarimento di Trofonio il quale, implorato da Aristone, rimette le cose a posto. Poi vorrebbe continuare i giochi, far nuove predizioni ma a quel punto tutti fuggono inorriditi (“Deh partiam, deh fuggiam dal malefico stregon”) e lo stravagante misantropo rientra solitario nella sua grotta.
Per una volta le Memorie dapontiane dicono il vero quando il poeta di Ceneda manifesta la sua sincera ammirazione per il lavoro di Salieri e Casti, nonché la giusta critica intorno al fatto che il secondo atto (a livello drammaturgico) è una fiacca replica del primo. Egli afferma: “(Salieri) scrisseLa Grotta di Trofonio, il cui secondo atto, quanto alla poesia distruggeva intieramente l’effetto del primo, del quale non era che una perfetta ripetizione, ma che a mio credere è un’opera assai più bella del Teodoro” (ossia Il re Teodoro in Venezia di Paisiello e Casti, rappresentata con successo a Vienna nel 1784). Pertanto nel Così fan tutte Da Ponte ricopia e migliora: la grotta si trasforma nella burla militare e Trofonio in Don Alfonso; lo sconcerto generato nella coppia femminile dal rovesciamento dei caratteri dei fidanzati diventa lo smarrimento di Dorabella e Fiordiligi (anch’esse sorelle) di fronte ai due inattesi spasimanti “albanesi” (Finale primo); inoltre questo radicale mutamento rimane l’unico della narrazione dapontiana (esteso però su due atti), evitando l’errore di Casti di ripetere nel secondo atto gli eventi del primo, anziché invece approfondirli e portarli alle estreme conseguenze.
Salieri compone un lavoro di notevole valore artistico nel quale vengono anticipati i caratteri della trilogia mozartiana sia a livello musicale (la compresenza di vocaboli dell’opera seria, buffa e gluckiana; l’azione che si fa musica soprattutto nei duetti e quintetti del Finale primo e in alcuni terzetti del secondo atto), sia a livello drammaturgico. L’origine tanto discussa e “oscura” del Così fan tutte (addirittura la briosa Dori si trasforma semplicemente nell’altrettanto scanzonata Dorabella), va dunque cercata semplicemente nel tentativo di Mozart e Da Ponte di replicare il grande successo salieriano, cinque anni dopo.


COSI FAN TUTTE-Finale Atto I


Si conferma la tendenza della coppia a lavorare nel solco di successi sicuri: il Figaro doveva ripetere il grande esito viennese del Barbiere di Paisiello (1783); il Don Giovanni si inseriva nella scia di quello fortunato di Bertati e Gazzaniga; Così fan tutte prende come modello la creazione di Salieri e Casti.
Vi sono ulteriori importanti riflessioni da svolgere intorno al Trofonio. Innanzitutto vi compaiono anche anticipazioni musicali di pagine celebri del Mozart successivo. In particolare nel secondo atto il terzetto (“Venite o donne meco”) nel quale, su un cullante ritmo di barcarola, il mago invita le giovani a entrare nella grotta ricorda l’atteggiamento complice di Don Giovanni che vuol portare Zerlina nel famoso “casinetto” (“Là ci darem la mano”) mentre il terzetto d’azione maschile (“Ma perché in ordine tutto vada”), con le sue precise e vorticose indicazioni di come condurre le ricerche delle fanciulle scomparse, viene preso a modello letterario e musicale nell’aria di Don Giovanni “Metà di voi qua vadano” (secondo atto). Non a caso quest’ultimo brano non è presente nel Don Giovanni di Gazzaniga e Bertati e fa parte degli episodi aggiunti da Da Ponte nel centro dell’opera.

                                            DON GIOVANNI-Metà di voi qua vadano


Vi sono inoltre considerazioni generali che vanno sviluppate intorno alla figura dell’abate Casti. Il letterato, nato nel Lazio (1724), studia in seminario e passa alcuni anni a Roma da dove si sposta a Firenze, al servizio del granduca Leopoldo. Qui incontra sia il giovane Giuseppe II, sia, soprattutto, il conte Rosenberg (futuro direttore della vita teatrale viennese, nonché uno dei pochi importanti burocrati giuseppini che non risulta affiliato alla Massoneria) il quale lo prende sotto la propria ala protettrice e lo porta con sé a Vienna (1772). Poema tartaro (1778 circa), scritto in Italia. Nel 1783 è nuovamente a Vienna dove Giuseppe II gli nega la successione a Metastasio.
Nel 1776 lo ritroviamo alla corte di Caterina II di Russia il cui impero il poeta ridicolizza nel suo satirico

L’esordio librettistico del poeta avviene nel 1784, allorché Casti viene invitato a collaborare con il popolare Paisiello nella stesura di un lavoro nuovo. Nasce così Il re Teodoro in Venezia, eseguito con successo al Burgtheater nell’agosto 1784 (in seguito entrato nel repertorio del principale teatro viennese): si tratta di un’opera eroicomica destinata a influenzare profondamente soprattutto la struttura drammatica (ma anche alcuni non irrilevanti dettagli musicali) delle Nozze di Figaro di Mozart - Da Ponte. In particolare i complessi finali d’atto del compositore italiano divengono quasi il modello di quelli mozartiani (nel Finale primo, mentre l’azione incalza, si passa, senza soluzione di continuità, da un duetto a un terzetto a un quintetto a un settimino; appare evidente la somiglianza col corrispondente Finale secondo delle Nozze; va ricordato che il Teodoro è in due atti mentre nelle Nozze l’azione scenica è ripartita in quattro atti).

LE NOZZE DI FIGARO-Finale Atto II


Il lavoro di Casti conferma la sua inclinazione conservatrice (antidapontiana e anticasanoviana si potrebbe dire): non solo nell’azione non compare alcun elemento antinobiliare, ma anzi l’avventuriero millantatore Teodoro (che si spaccia per re e pretende di vendere titoli inesistenti) finisce in galera per debiti mentre tutti gli altri personaggi, liberatisi dello scomodo agitatore, possono ristabilire l’ordine sociale turbato: il locandiere Taddeo, per poche ore diventato “generale”, torna a essere un semplice locandiere; Lisetta sua figlia, che lo sciocco padre sperava divenisse “regina”, può riallacciare il proprio fidanzamento con il semplice mercante Sandrino e nell’epilogo tutti intonano il coro moralistico “Come una ruota è il mondo” dove si dice che c’è “chi salta, chi precipita / e chi va in su, chi in giù” per concludere saggiamente: “Ma se la ruota gira / Lascisi pur girar / Felice è chi fra i vortici / Tranquillo può restar”. Insomma, un distaccato scetticismo anima il testo e invita in sostanza a non modificare l’ordine sociale esistente.
Al Teodoro, nel quale è già possibile leggere tra le righe un messaggio di critica alla dinamica e pericolosa politica giuseppina, segue la Grotta musicata da Salieri la quale viene salutata anch’essa da un notevole successo (Artaria ne pubblica perfino la partitura, evento assolutamente insolito). Vi si narra, come detto, di un mago misantropo che vive in una grotta e che pensa di potere cambiare la natura di persone e cose. Questo presuntuoso Catone porta lo scompiglio nell’ordine naturale delle cose, infrange l’aristotelica regola che vuole il simile accanto al simile e pensa di potere creare “uomini nuovi” e differenti. Gli esiti sono perversi e universalmente contestati. Per fortuna poi tutto si aggiusta e “il malefico stregon” viene abbandonato a se stesso, in solitudine. Il pubblico aristocratico di Vienna, quello stesso che di lì a poco decreterà l’insuccesso della provocatoria e massonica trilogia mozartiana, applaude felice: esso deve avere colto la sottile e audace ironia dell’abate che ha ritratto in Trofonio nientemeno che Giuseppe II (figura umana altrettanto presuntuosa e ostinata), l’illuminista che porta scompiglio e che tutti scontenta. Dunque Casti rappresenta quella nobiltà irritata dalle riforme avveniristiche e filoborghesi dell’imperatore: benché si vociferi di lui come di un libertino o, peggio, di un giacobino, Casti non è (per quanto ci consta) un massone (nell’esaustivo volume di Alberto Basso, L’invenzione della gioia, quasi un dizionario dei musicisti massonici nel Settecento, Casti non è mai citato) e quindi è realmente una figura estranea al contesto culturale egemone nella Vienna giuseppina; né appare casuale che egli incorra nelle ire e nelle astiose critiche sia del concorrente Da Ponte, sia dell’avventuriero Casanova (storico alleato e protettore del librettista di Ceneda) il quale si spinge fino a definire Casti “rimatore ignorante e impudico”.


Gli eventi successivi sembrano confermarlo. Dopo l’attacco frontale a Mozart e Da Ponte conPrima la musica, poi le parole (vedi sotto), Casti ha la faccia tosta di confezionare un’opera antirussa quale Cublai, gran kan de’ Tartari (il soggetto è ispirato a un capitolo del Poema tartaro) per la quale Salieri compone le musiche ma che viene subito proibita da Giuseppe II, alleato di ferro di Caterina II e in procinto di entrare in guerra contro la Turchia al fianco della poco affidabile imperatrice. In seguito l’abate, che aspira alla carica massima di poeta cesàreo, viene invitato a lasciare Vienna (1787): si parla di espulsione con indennizzo ma non ci sono le prove; tuttavia Giuseppe II doveva averne abbastanza del letterato “provocatore”. Il Trofonio sarebbe dunque l’ultimo tentativo della cultura nobiliare di corte di protestare con arguzia contro le manie “sovvertitrici” di Giuseppe II. Nel Finale secondo la scena si apre con l’esilarante coro “Trofonio, Trofonio, filosofo greco”, solenne, gluckiano eppure immobilizzato su un’unica nota, nel quale dopo il verso iniziale il testo prosegue con “tu chiami sul mondo la guerra e la peste, tu crei la tempesta sul pelago Ionio”: non si potevano immaginare versi più aderenti alla situazione di disagio e di aperta ostilità che circonda l’imperatore progressista e le sue riforme. Il coraggioso Casti si rivela ora anche buon profeta: la guerra è effettivamente alle porte.
Né appare casuale che Giambattista Casti rientri nella capitale asburgica solo nel 1791 con il placet di Leopoldo II, il quale sta prendendo le distanze dalla Russia di Caterina II (dunque il Poema tartaro non è più un problema), nonché da tutte le pericolose società segrete che ancora operano nella Vienna dei primi anni novanta. Verrà infine formalmente riassunto ed elevato al rango di poeta cesàreo (in sostituzione del grande Metastasio, nel periodo 1792-96, con uno stipendio di 3000 fiorini; quello di Da Ponte, poeta dei teatri imperiale, era di 1200 fiorini) dal “reazionario” Francesco II il quale, tra l’altro, riconferma l’allontanamento di Da Ponte (vedi sotto) e provvede a versargli la promessa liquidazione.
Infine bisogna ricordare che in due lettere (del 27 novembre 1799 e del 21 luglio 1800) di Constanze agli editori Breitkopf & Hartel (anche loro vicini alla Massoneria), la donna ricorda che Mozart al termine della sua esistenza, stava progettando una società segreta (probabilmente una loggia coperta o una setta appartata e trasversale come quelle degli Asiatici o degli Illuminati, non coincidente con una loggia ufficiale) chiamata <La grotta>. Impossibile che il compositore nello scegliere tale nome (in lingua italiana) non pensasse anche a uno dei massimi successi operistici viennesi, alle sue esplicite allusioni (anche se in quel contesto poco benevole) a Giuseppe II quale riformatore deciso e intraprendente, capace di rovesciare l’ordine esistente, e all’idea di un luogo in cui, come per magia, si potesse determinare una radicale trasformazione del reale.

Una strana festa

Per il febbraio 1786 Giuseppe II indice una festa musicale all’Orangerie di palazzo Schönbrunn invitando sia Mozart, sia Salieri a comporre un breve divertimento scenico di argomento metateatrale. Il salisburghese, dopo gli incerti e abortiti tentativi dell’Oca del Cairo e dello Sposo deluso (quest’ultimo non privo di qualche passo interessante), completa la modesta “trilogia” componendo i pochi numeri musicali (ouverture, due arie, un terzetto e un vaudeville) di Der Schauspieldirektor in cui “dimostra” di sapere comporre pagine piuttosto anonime nello stile dei prevalenti maestri italiani. Lo conferma il poco lusinghiero giudizio che a caldo ne diede il conte Carlo Zinzerdorff: “il tutto riuscì molto mediocre”. Meglio fa Salieri con Prima la musica, poi le parole sia perché il testo di Casti è realmente gustoso, sia perché al suo interno alcuni brani del compositore italiano riescono a rendere la comicità intrinseca di questa classica caricatura dell’opera seria e del mondo approssimativo e fatuo del teatro musicale, attingendo a piene mani dagli ultimi successi viennesi (in particolare dal Giulio Sabino di Giuseppe Sarti, Venezia 1781, eseguito nel 1785 con buon esito nella capitale austriaca). Tuttavia quello che in questa sede interessa è la tesi principale che anima il sarcastico e malizioso testo di Casti, tutto assorbito da questioni inerenti la recente vita operistica viennese. Un ricco mecenate, il conte Opizio (alias Giuseppe II), appassionato di cose musicali commissiona il libretto d’opera a un letterato fanfarone (alias Da Ponte; il cantante Stefano Mandini si presenta in scena vestito e pettinato alla maniera del letterato di Ceneda), intimandogli di prepararlo “in quattro dì” poiché la musica è già pronta. Al di là delle usurate osservazioni che si possono dedurre (e sono state esaminate in abbondanza dai musicologi) sull’evidente primato della musica nell’opera italiana, qui il sospetto che può nascere è ben altrimenti sconvolgente. Giuseppe II commissiona (come già detto in sostituzione dell’omonimo Singspiel che sta girando in Germania) una versione italiana del Figaro a Da Ponte (questo è il vero bersaglio del sarcasmo di Casti), la qual cosa confermerebbe il lavoro di Mozart-Da Ponte come parte della battaglia ideale antiaristocratica promossa dall’imperatore, e lo fa incaricando il maestro di musica (alias Mozart) di avvisare il librettista di fare alla svelta poiché la musica è già pronta. Si arriva così al cuore del problema: il compositore ha già in mano l’intera partitura finita e non gli resta che adattarvi le parole del librettista; ma siccome è alquanto improbabile comporre un’intera opera senza un testo di riferimento, di che musica si sta parlando? Giorgio Taboga avanza l’ipotesi che la musica sia stata composta in precedenza dal Kapellmeister di Bonn Andrea Luchesi e che tale musica fosse all’origine del Singspiel citato. Inoltre il testo si può certamente adattare in quattro giorni poiché anch’esso è già pronto (sebbene in lingua tedesca). E’ una tesi estrema che, nel momento stesso in cui viene proposta, andrebbe minimamente documentata con testimonianze concrete intorno alla natura del Singspiel Die Hochzeit des Figaro; al contrario nei testi del biografo di Luchesi non si trova alcuna indicazione al riguardo e la congettura resta campata in aria.
D’altro lato anche l’unica frase presente nelle Memorie dapontiane al riguardo delle Nozze è assai ambigua. Innanzitutto il letterato scrive: “Vietato aveva pochi dì prima l’imperadore alla compagnia del teatro tedesco di rappresentare quella commedia, che scritta era, diceva egli, troppo liberamente per un costumato uditorio: or come proporgliela per un dramma? Il baron Vetzlar offriva con bella generosità di darmi un prezzo assai ragionevole per le parole, e far poi rappresentare quell’opera a Londra o in Francia, se non si poteva in Vienna”. Si noti che in questo passo lo scrittore sta solo parlando di una traduzione delle parole di quella edizione e non fa cenno a una nuova musica (tale sarebbe l’intento del barone) mentre poi egli aggiunge che, nel solco di questa iniziativa di Wetzlar, egli pensò di affidare la musica a Mozart. Per quanto largamente egocentrica, questa versione rende ancor più fondamentale ed enigmatica la relazione tra il lavoro della compagnia Grossman e la nuova opera di Mozart - Da Ponte. Poco più avanti ecco le scarne righe dedicate al tipo di collaborazione instaurata con il salisburghese: “Mi misi dunque all’impresa, e, di mano in mano ch’io scrivea le parole, ei ne faceva la musica. In sei settimane tutto era all’ordine”. Questa sciagurata versione, così burocratica e grigia, non sembra avere a che fare con un vasto atto creativo ove numerose sono sempre le incertezze, i bivi aperti, le vie possibili, i ripensamenti e le folgorazioni; essa sembra dar conto di un banale lavoro di revisione di qualcosa di già preparato, un po’ come se Da Ponte, senza volerlo, pensasse: “man mano ch’io traducea le parole, ei ne aggiustava la musica”. Il tempo di sei settimane è largamente plausibile (e poco sorprendente) per un simile tipo di lavoro.
In ogni caso il testo di Casti appare allusivo e malizioso; si pensi alle affermazioni iniziali rivolte dal Maestro al Poeta: “Circa a la musica non ve ne date pena; ella è già pronta. E voi sol vi dovete le parole adattar”; e alle strofe del quartetto finale: “Or se tutti son d’accordo, se nessuno è muto e sordo, se la musica è già pronta, se il libretto non si conta, se vestiario, se scenario, se gli attori, i suonatori, se ogni cosa insomma è lesta, se chi paga e dà la festa, vuole ed ordina così, sarà cosa facilissima di far l’opra in quattro dì”. In fondo il testo sopracitato può essere letto come allusivo nei confronti di un piccolo, segreto complotto. Si può aggiungere che il committente Opizio è un conte come il conte d’Almaviva e che i quattro dì fanno il paio con i quattro atti dell’opera (partizione a tutti ben nota, come dimostra la lettera sopracitata di Kraus).
Conti aperti con Da Ponte ne avevano sia Casti, sia soprattutto Salieri il quale era ancora irritato per il fiasco de Il ricco d’un giorno (dicembre 1784), uno dei suoi rari insuccessi viennesi di cui dava la colpa alla scarsa qualità del libretto di Da Ponte (era la loro prima collaborazione, e tale rimase fino al 1787). D’altro lato inventare una farsa che aveva come bersaglio l’ “avversario” (o meglio il rivale; era a tutti noto che Mozart stava lavorando al Figaro) di quella medesima festa musicale può essere stato un colpo di genio che deve avere sommamente divertito la selezionata (e certamente ben informata) platea “regale”. Da Ponte, invece, presente allo spettacolo si inalbera all’affronto e reagisce pochi giorni dopo con un sarcastico sonetto in cui accusa il colpo e si difende irridendo le qualità letterarie di Casti. In seguito, nelle memorie, parlerà di “vero pasticcio, senza sale, senza condotta, senza caratteri... ” e di “galante satiretta dell’attuale poeta teatrale....ma se si tragga il vestito mio e il modo con cui io portava i capelli, il rimanente era più il ritratto di Casti che mio”.
L’interpretazione del divertimento salieriano come di una satira intorno ai retroscena del nascenteFigaro è una congettura da tenere presente: essa spiegherebbe il reticente silenzio (presente e futuro) intorno alla lavorazione dell’opera buffa di Mozart e Da Ponte, silenzio ancor più sospetto se si pensa che, intorno a un’operina solo abbozzata come L’oca del Cairo, Mozart scrive al padre alcune fluviali lettere (come peraltro intorno alla lunga gestazione del Singspiel Die Entführung aus dem Serail, 1782) in cui descrive con calore la possibilità di modificare alcune situazioni sceniche (dicembre 1783) e in definitiva chiede consiglio. Resta dunque lo sconcertante enigma: se la musica (del Figaro) è (almeno in parte) già pronta, da dove proviene? E’ musica composta da Mozart o bisogna ipotizzare altre provenienze? Si badi che nel testo di Casti in nessun punto il maestro di musica afferma di essere l’autore della musica (con l’eccezione di un’aria di cui afferma “otto e dieci anni sono la composi in Forlì...vedrete che qui ognuno se la becca per nuova, anzi nuovissima di zecca”, passo peraltro che rafforza l’idea generica di una sorta di frode musicale in atto); egli si limita a ripetere che “la musica è già pronta....”, una musica di gran lunga superiore alle ordinarie creazioni presenti in L’oca del Cairo, Lo sposo deluso e Der Schauspieldirektor, nonché di tutta la generica produzione operistica mozartiana degli anni sessanta e settanta.
Va aggiunto infine che i ritmi creativi del Mozart viennese sono incredibili, soprattutto se confrontati poi con la fama di relativa pigrizia che lo circonda (si vedano la lettera di Melchior von Grimm del 1778 e quella di Leopold Mozart a proposito dei preparativi per il Figaro). Il musicista compone in quegli anni una quantità inverosimile di opere che spaziano in ogni settore della musica; quelle poi dedicate al pianoforte implicano anche ore di studio e di prove per perfezionare le esecuzioni pubbliche tenute da Mozart soprattutto nella prima metà degli anni ottanta. Intorno al periodo di gestazione del Figaro il musicologo Volkmar Brauenbehrens scrive: “Mozart lavorò in tempi davvero da suicidio: durante i sette mesi di lavoro a Figaro videro infatti la luce non solo le musiche per Der Schauspieldirektor, ma anche tre concerti per pianoforte e orchestra, la Maurerische Trauermusik e almeno altri otto lavori” (in Salieri: un musicista all’ombra di Mozart, 1989). Al misterioso “backstage” si aggiunge quindi lo sconcerto per l’intensa produttività.
Va aggiunto infine che la pratica dell’acquisto e della vendita di composizioni era cosa comune e praticata dallo stesso Mozart il quale, come è noto, accettò di fornire (dietro congruo pagamento) alcuni Lieder al dilettante di musica Gottfried von Jacquin e un intero Requiem al conte Walsegg.

Un libretto “aggiustato”

Tutta da chiarire resta anche la concreta relazione tra il Don Giovanni “veneziano” del librettista Bertati (1735-1815), musicato da Giuseppe Gazzaniga (Verona 1743 - Crema 1818), andato in scena nel febbraio 1787 (al teatro San Moisé) e quello “praghese” di Da Ponte - Mozart. Sebbene il librettista di Ceneda (una frazione di Vittorio Veneto) non risparmiasse gli insulti al collega veneziano (definito nelle Memorie “botta gonfia di vento”; nel medesimo testo invece attribuisce a Casti - ma c’è da dubitarne - la definizione di Bertati “povero ciuccio”), d’altro canto è proprio attingendo a piene mani dal libretto di quest’ultimo che Da Ponte crea il suo celebre testo. Il lavoro di Bertati, in un atto unico, inizia con la violenza a Donna Anna (qui definita in modo inequivoco) e con il conseguente omicidio del Commendatore, prosegue con l’irruzione di Donna Elvira, l’aria del catalogo, le minacce a Biagio (alias Masetto) e la seduzione di Maturina (alias Zerlina); poi l’opera di Gazzaniga prosegue con un Don Giovanni assediato da ben tre spasimanti (a Maturina, qui pienamente consenziente e decisa a sposare il cavaliere, ed Elvira si aggiunge Donna Ximena) che riesce a disimpegnarsi mettendo le donne l’una contro l’altra (duetto litigioso di Elvira e Maturina). Si salta poi direttamente alla scena del cimitero, all’imprudente invito a cena e al grande Finale con l’irruzione della statua, il dissoluto punito e il concertato liberatorio e felice di tutte le vittime dell’incontenibile seduttore.
Se non vi sono particolari problemi nel rilevare la dipendenza del testo di Da Ponte da quello di Bertati (il librettista di Mozart aggiunge i noti episodi centrali e rende la figura del seduttore assai più variegata e simpatica), il mistero riguarda le notevoli somiglianze che, in più punti, la partitura veneziana mostra nei confronti di quella praghese. E’ probabile che una versione del lavoro fosse disponibile a Vienna e fosse conosciuta da Mozart anche perché uno dei cantanti dell’edizione di Gazzaniga, il tenore Antonio Baglioni (facente parte della compagnia di canto dell’impresario praghese Guardasoni; nel 1791 protagonista, nel ruolo principale, de La clemenza di Tito(FILE PDF)), è tra i protagonisti di quella mozartiana (entrambe le volte nel ruolo di Don Ottavio) e può avere portato con sé e messo a disposizione di Mozart e Da Ponte copia della musica veneziana (magari proprio tramite Guardasoni, il committente del Don Giovanni praghese). Inoltre l’anno precedente Gazzaniga era stato a Vienna e aveva collaborato con Da Ponte mettendo in scena, senza troppo successo, l’opera buffa Il finto cieco (febbraio 1786), subito prima che il letterato iniziasse a lavorare alla “traduzione” italiana del Figaro di Beaumarchais.
Comunque siano andate le cose Da Ponte rimane alquanto abbottonato intorno alle origini del Don Giovanni; solo nella già citata autobiografia in forma ridotta edita negli USA nel 1819 si lascia sfuggire che era stato Guardasoni a consegnare a Mozart il libretto del Bertati, chiedendogli di musicarlo nuovamente e che allora il salisburghese era ricorso a lui per averne una versione rimaneggiata. Nelle più note Memorie (1823) in tre volumi non ripeterà questa verosimile versione dei fatti.
Nella musica di Gazzaniga, tra i passi più suggestivi quanto a somiglianze con la partitura mozartiana ricordiamo: l’atmosfera sonora dell’intero tragico episodio iniziale (scene 1° e 2°) ossia inizio silente e inquieto, esplosione del dramma, statico terzetto “funerario” generato dal Commendatore morente; l’inciso orchestrale che segna l’entrata in scena di Don Giovanni inseguito da Donna Anna; l’aria del catalogo animata dal medesimo spirito beffardo e da somiglianti soluzioni ritmiche; il tema della festa di Maturina, “Tarantan, tarantan, tarantà”, simile a quello di “Giovinette che fate all’amore” di Zerlina (li attraversa una medesima sensuale esuberanza); allo stesso modo il percosso Biagio canta in “A me schiaffi sul mio viso” un lamento risentito, molto vicino al “Ho capito signorsì” di Masetto; inoltre l’aria bipartita “Se pur degna voi mi fate” la quale segna il totale e definitivo cedimento di Maturina (una seducente dolcezza nella prima parte sfocia nella decisa e brillante stretta “Caro, caro, che vel’ dico”) e costituisce la necessaria premessa del celebre (anch’esso bipartito) duetto “Là ci darem la mano”.

                                           DON GIOVANNI-La ci darem la mano

Nella seconda parte del dramma giocoso di Bertati e Gazzaniga si nota il duetto del cimitero di Don Giovanni e Pasquariello (alias Leporello), “Signor Commendatore...” il quale propone già quella geniale miscela di sfrontatezza e paura, quel costante giocare su due affetti antitetici continuamente alternati (e compiutamente resi dagli intrecciati disegni vocali), che segnerà l’immortale, parallela pagina mozartiana (“O statua gentilissima”). Va inoltre notato che la parte conclusiva del duetto di Gazzaniga (“Aspetta, o stolido, che per convincerti”) esordisce con un quieto e interrogativo inciso strumentale in terzine degli archi, volto a creare un clima di magica sospensione idoneo alla scena catacombale, inciso che Mozart riprende e trasporta invece al momento della morte del Commendatore (diventerà in seguito l’indimenticabile incipit della pianistica Sonata op 27 n. 2 di Beethoven(FILE PDF)). In entrambe le scene siamo di fronte all’irrompere di una realtà inaudita (il soprannaturale in Gazzaniga; semplicemente la morte in Mozart) che quel fluido scorrere di terzine prepara con soave eleganza, sorta di magico tappeto sonoro che cerca di smorzare l’orrore, ponendolo entro un’apollinea cornice.
L’ampia scena finale sviluppa il carattere solenne del protagonista e quello tremebondo di Pasquariello al cospetto della Giustizia oltremondana; la conduzione degli eventi sonori, sviluppati in un serrato andamento dialogico in cui l’azione si fa musica, è identico a quello mozartiano. Il Don Giovanni di Bertati-Gazzaniga è però una figura fredda e scostante, cinica e spietata, totalmente perduta e priva di umanità (la violenza su Donna Anna è esplicitamente ammessa; la seduzione di Maturina, ai danni del povero Biagio, portata a compimento); la punizione finale giunge dunque benvenuta e il vivace e ottimo concertato conclusivo funziona da esorcismo benefico, concertato che approda addirittura a una scrittura onomatopeica e “carnevalesca” (l’opera era stata scritta per la stagione del carnevale) i cui “flon flon, tren tren, pu pu” si inseriscono in una corrente di “follia” musicale che troverà la propria perfetta definizione nel celebre concertato del Finale primo dell’Italiana in Algeri di Rossini(FILE PDF). Al contrario il più complesso (e inconcludente, poiché nessuna delle sue imprese giunge a compimento) seduttore di Da Ponte - Mozart si rivolge alla Statua all’interno di un tessuto di tormentata solennità che esprime il proprio stupore di fronte all’apparizione del metafisico, attraverso un linguaggio sonoro denso e derivato dalla tradizione dell’opera riformata di Gluck. L’allegro concertato finale quindi appare fuori posto in quanto la dolente problematicità dello scontro di terreno e oltremondano in Mozart non richiede alcuno sfogo liberatorio. In quel caso la “fedeltà” a Bertati appare fuori posto. Chissà se Mozart e Da Ponte hanno mai avuto modo di discuterne.
Illustrazione raffigurante i personaggi del “Don Giovanni” 
D’altro canto l’opera di Mozart e Da Ponte, con quella sottile, insinuante simpatia per il prepotente cavaliere doveva risultare poco gradita a Giuseppe II: rispetto alle Nozze, l’intento antinobiliare e massonico appare annacquato dal carattere contradditorio del libertino, deciso sostenitore dell’umana diseguaglianza (le prepotenze contro Masetto replicano quelle del conte Almaviva nei confronti di Figaro) ma anche figura carismatica, tormentata dalla “troppo umana” necessità di immergersi senza remore in una dimensione demonico-carnale. In fondo l’ “innocuo” Don Giovannidi Bertati è un personaggio ben altrimenti censurabile, autore di “enormi misfatti” il quale si trascina dietro un’implicita maledizione del privilegio nobiliare.
Nettamente differente appare infine la figura di Donna Evira, che esordisce con un’aria introversa e sofferente (“Povere femmine”) e poco prima del finale abbandona Don Giovanni al suo destino (“Sposa più a voi non sono”), invitandolo a “tornare alla virtù”.

Julia Varady interpreta Donna Elvira


Una misteriosa apparizione
Nella gestazione del libretto del Don Giovanni si inserisce perfino la controversa figura di Giacomo Casanova. L’avventuriero veneziano, prestigioso maestro della Massoneria fin dagli anni cinquanta, può essere considerato una sorta di agente segreto delle logge in perenne missione in Europa, tra Parigi e Londra, la Spagna e la Russia, l’impero austriaco e la frammentata penisola italica. Non stupisce quindi vederlo all’opera nella Vienna di Giuseppe II in cui approda, dopo sfortunate disavventure veneziane, nel 1783. Qui ritorna a frequentare quotidianamente l’amico Da Ponte, conosciuto a Venezia nel 1776, certamente entra in contatto con Mozart e Salieri (anche se non ne parla mai), si inserisce abilmente nei più alti circoli del potere asburgico, viene ricevuto dall’imperatore e riprende presto a viaggiare tra la Boemia e la Germania. Conosciuto a Vienna il conte Joseph Karl von Waldstein, primogenito di Emmanuel von Waldstein e Maria Theresa, principessa di Liechtenstein, ne accetta in breve tempo l’impiego presso la biblioteca del castello di Dux (circa 200 chilometri a nord di Praga). Vi si trasferisce nel 1785 e vi rimane fino alla morte (1798).
Sono proprio gli anni di Dux a interessare la nostra indagine, poiché tra le carte dello scrittore verranno trovate delle varianti della scena nona del secondo atto del Don Giovanni di Da Ponte (una delle scene assenti in Bertati e aggiunte dallo scrittore di Ceneda). Casanova ha sempre frequentato la gente di teatro (in genere vicina a quella delle logge): è figlio della commediante Zanetta Farussi (morta a Dresda nel 1776) e a Giuseppe II ha proposto invano sontuosi spettacoli di corte. Dal suo dorato eremo di Dux (il cui impiego si può anche intendere come una doverosa pensione elargita dalla Massoneria a un fedele servitore, dato che la famiglia Waldstein era inserita nell’universo delle logge) l’ex avventuriero scende a Praga per lunghi periodi; in particolare nell’autunno 1787 è nella capitale boema dove reincontra un Da Ponte affaccendato nel Don Giovanni (e dunque anche Mozart). Il librettista, è cosa nota, viene richiamato anzitempo a Vienna per portare avanti la stesura dell’Axur di Salieri e non può dunque seguire fino alla fine la messa a punto del Don Giovanni (andato in scena alla fine di ottobre 1787); si può dunque ipotizzare che Mozart abbia chiesto consiglio per il suo testo anche all’ “esperto” Casanova il quale, è cosa certa, il 25 ottobre 1787 è a Praga (in quella data scrive una lettera dalla capitale boema al conte di Lamberg)? Un’ulteriore riprova della familiarità che potrebbe avere legato Mozart - Da Ponte e Casanova è data dal fatto che nell’estate 1788, allorché Casanova si trattiene lungamente a Praga per seguire la stampa del suo romanzo Jcosameron, egli è ospite di Pasquale Bondini, ossia del direttore della compagnia d’opera italiana che è stata la principale responsabile del successo mozartiano a Praga nel biennio 1786-87 (prima con l’esecuzione del Figaro, poi del Don Giovanni). Casanova torna a Praga nel settembre 1791: non può certo mancare ai festeggiamenti per l’incoronazione di Leopoldo II (è assai probabile che si rivide con Mozart); ma anche di tale esperienza non abbiamo testimonianza da parte dello scrittore veneziano. Tutto ciò è ipotizzabile come verosimile congettura in relazione ai due fatti certi già citati: le varianti al libretto del Don Giovanni stese da Casanova e l’amicizia di quest’ultimo con Bondini.
Infine un ultimo aspetto appare fortemente suggestivo: mentre il primogenito Joseph Waldstein (1755 - 1814) che frequenta la Vienna di Giuseppe II, Da Ponte e Mozart dava asilo al “maestro” Casanova, uno dei suoi fratelli (ne aveva ben dieci), Ferdinand von Waldstein (1762-1823) studia composizione a Bonn (dal 1788) con Andrea Luchesi, diviene amico di Ludwig van Beethoven e in seguito suo protettore presso le medesime cerchie aristocratiche di Vienna che avevano sostenuto l’attività del salisburghese. Quest’altro Waldstein, il cui nome rimane eternamente legato alla celebreSonata pianistica op. 53 del compositore di Bonn, è anch’egli partecipe di importanti cerchie massoniche in Europa e opera come diplomatico alla corte di Max Franz (fratello di Giuseppe II e di Leopoldo II) nel periodo 1788-92 (in seguito collaborerà con l’esercito inglese in qualità di maresciallo di campo nel periodo 1795-1807). Ci si può anche chiedere come mai Ferdinand von Waldstein decida di andare a studiare a Bonn da Luchesi avendo a disposizione Mozart (con il quale la famiglia Waldstein possiede evidenti rapporti di conoscenza) a Vienna. Al di là di possibili speculazioni, è realistico pensare che le prospettive “diplomatiche” fossero quelle primarie (tra l’altro il giovane Waldstein aveva aderito all’antico e prestigioso Ordine dei Cavalieri Teutonici, attraverso un regolare noviziato di tre anni, Ordine di cui Max Franz era appunto il Gran Maestro) e la questione musicale una componente secondaria. In ogni caso questo Waldstein preferisce l’insegnamento di Luchesi e l’ambiente di Bonn a quello prestigioso della capitale dell’impero. Dunque esiste un ulteriore possibile canale, tutto da investigare, che porta da Luchesi a Mozart, attraverso la strana via dei fratelli Waldstein, del bibliotecario Casanova e del castello di Dux (dove si trovavano alcune composizioni di Luchesi) posto nelle vicinanze di quella Praga che diede a Mozart le soddisfazioni più grandi nell’ultima parte della sua carriera di compositore.

La famiglia Waldstein è presente in modo determinante nel triangolo geografico Vienna - Dux - Bonn (si ricordi inoltre che tra le numerose famiglie della nobiltà viennese che sottoscrivono le accademie mozartiane dei primi anni ottanta non manca quella dei Waldstein); a queste presenze, troppo poco studiate, si deve aggiungere il fatto (pressoché ignoto alla totalità dei biografi mozartiani) che anche a Salisburgo risiede, in posizione significativa, una Waldstein. Nel 1763 il gran ciambellano di corte, nonché amico e mecenate dei Mozart, Leopold von Kuenburg sposa Friedriche Maria Anna Waldstein (nata a Dux nel 1742 - morta a Salisburgo nel 1803), zia (paterna) dei fratelli Joseph e Ferdinand. Tale conoscenza, provata tra l’altro dalla lettera che Mozart spedisce al padre il 26 novembre 1777, lettera nella quale invia precisi saluti a “conte e contessa Kuenburg”, può avere ulteriormente facilitato l’introduzione di Mozart nella cerchia aristocratica viennese. Dunque più che di un triangolo si può parlare di un quadrilatero. Altri indizi si aggiungono se si pensa che un altro Waldstein, Jan Vincenc Ferrerius von Waldstein (1731-1797), “scopre” intorno al 1760 il talento del praghese Josef Myslivecek e lo manda a studiare, nel 1763, da Giovanni Battista Pescetti, ovvero proprio nella Venezia di Galuppi, Bertoni e Luchesi, città dalla quale inizia l’ascesa italiana e quindi europea del “divino boemo”. Gli incontri italiani tra i Mozart e Myslivecek (1770-73) potrebbero essere stati caldeggiati dalla famiglia Waldstein così come la presenza (per certi aspetti inspiegabile) di Ferdinand von Waldstein da Luchesi potrebbe essere una scelta derivata dalla conoscenza della segreta collaborazione che forse legava il Kapellmeister di Bonn a Mozart. Uno studio (fino a oggi inesistente a quanto mi consta) sulla casata dei Waldstein nella seconda metà del Settecento potrebbe chiarire numerosi eventi. 

Una carriera sorprendente
La vicenda biografica di Lorenzo Da Ponte contiene innumerevoli enigmi. Quello che maggiormente interessa in questo contesto è la sua assunzione a poeta dei Teatri imperiali da parte di Giuseppe II intorno al 1783, un onore del tutto inadeguato alle capacità fino ad allora espresse dal letterato di Ceneda.
Da Ponte, dopo l’ordinazione sacerdotale (1773), si trasferisce a Venezia dove entra in contatto con gli ambienti dell’aristocrazia illuminista. Ottenuta una raccomandazione per il seminario di Treviso vi insegna per un paio di anni e nel 1776 vi tiene una prolusione cittadina di stampo “progressista”, inneggiante al buon selvaggio di Rousseau e alle dure leggi sociali, incapaci di garantire la felicità. Il gesto è sconsiderato e il sacerdote viene immediatamente deferito alle autorità veneziane che ne determinano l’allontanamento da ogni forma di insegnamento nei territori della Repubblica veneta (1776). Con questo “fiore all’occhiello” Da Ponte può tornare a Venezia come figura nota e approfondire i propri legami con quella cerchia riformatrice. Diviene amico di Giacomo Casanova, di Pietro Zaguri, istitutore dei figli di Giorgio Pisani (arrestato nel 1780 per le sue attività di riformatore costituzionale); diviene l’amante di Angela Bellaudi, una popolana che per lui abbandona il marito (da cui forse veniva maltrattata; tuttavia nel 1780, partito Da Ponte, Angela torna al tetto coniugale dove Da Ponte la ritroverà nel 1798) e vive di espedienti nel periodo 1777-79 (il sacerdote Da Ponte non può convivere con una donna sposata e la sistema presso conoscenti), dandogli ben tre figli, tutti regolarmente abbandonati all’Ospedale della Pietà (in questo Da Ponte e Mozart si assomigliano: nel loro eccessivo e incontrollato “amore” per l’altro sesso si disinteressano delle creature che mettono al mondo). L’adulterio viene infine denunciato dal marito di Angela (solo nel 1779 però, tre anni dopo il fatto; per giustificarsi l’uomo afferma di temere il sacerdote e le sue amicizie potenti) e Da Ponte, il quale si affretta a fuggire a Gorizia (in territorio austriaco), viene condannato dall’Inquisizione a quindici anni di esilio da Venezia. Il percorso è quindi in tutto simile a quello di Casanova che venne pure esiliato da Venezia, dopo la sua celebre fuga dai Piombi (1756).
Clemenza di Tito Overture
A Venezia Da Ponte era diventato amico di Caterino Mazzolà, stimato librettista ai primi passi (futuro autore del testo della Clemenza di Tito, 1791); quando costui ottiene una prestigiosa nomina al teatro di Dresda (1780), ritrova, di passaggio a Gorizia, l’esiliato Da Ponte il quale decide di seguirlo (dopo un primo, breve periodo a Vienna)  nella capitale della Sassonia (fine 1780). A Dresda il letterato ottiene alcune raccomandazioni per Vienna: nelle Memorie parla di una lettera per Salieri, di cui però non c’è traccia. Sappiamo invece che egli viene inviato da Mazzolà a Johann von Puthon, commerciante all’ingrosso e soprattutto figura rilevante della Massoneria austriaca (affiliato fin dal 1774, dapprima in quella praghese, poi a Vienna), ben inserito nell’ambiente letterario della capitale (frequenta il salotto di Metastasio). Per tale via dunque, all’interno di un preciso circuito di aderenze massoniche, Da Ponte giunge dalla Venezia progressista agli ambienti riformatori della capitale asburgica (dove, tra l’altro, ritrova nel 1783-85 Casanova, nuovamente in fuga da Venezia).

Giuseppe II decide di nominarlo quindi librettista del teatro di corte italiano, da poco riattivato, nonostante non abbia mai scritto alcun libretto. L’attento monarca, il quale si dedica al teatro con enorme solerzia, avendo individuato in esso uno strumento formidabile di politica culturale adatto a diffondere “con grazia” le proprie idee antinobiliari, non può che riporre la massima attenzione nella scelta del nuovo librettista. Egli è certamente consapevole di avere di fronte un proscritto, colpevole di atteggiamenti sfacciati nei confronti della nobiltà e dell’ordine politico veneziano (oltre che di uno stimato autore di poemetti); è dunque proprio in virtù di queste qualità bellicose e anticonformiste che egli sceglie Da Ponte (scrittore ovviamente caldeggiato, come si è detto, dagli ambienti massonici): in fondo la “scandalosa” trilogia italiana è in qualche modo già implicita in questa nomina imperiale (e non solo quella; il fortunato L’arbore di Diana, su musica di Soler, è un testo che inneggia a una sensualità libera, seppure in una cornice arcadico-favolistica che attenua gli effetti trasgressivi del testo; esso viene inopportunamente messo in scena nell’ottobre 1787 per festeggiare le nozze di Maria Teresa, nipote di Giuseppe II e l’immancabile conte Zinzendorf, esponente tipico dell’aristocrazia di corte, nel proprio diario annota: “l’opera era poco decente per festeggiare una giovane sposa”).
Ave Verum-Mozart
Lanapoppi, attento e informato biografo del poeta, riguardo a questa nomina (evento centrale dell’intera vicenda dapontiana, suo inatteso apice) parla di un “vero miracolo” e prosegue dicendo che “per quanto si possa meditare sui dati disponibili, non si riesce a capire come ci sia arrivato”. Nella sua ottima biografia però mancano completamente i riferimenti alla Massoneria e all’attività politica delle società segrete (Puthon, ad esempio, viene descritto come un semplice, ricco commerciante), riferimenti che sono i soli a potere inquadrare tutta la vicenda viennese. Da Ponte è dunque gradito al “rivoluzionario” Giuseppe II che ne diviene, di fatto, il potente protettore (nelleMemorie infatti il letterato descrive l’ “illuminato” monarca con espressioni tutte improntate alla più sfrenata e acritica ammirazione, così da contribuire alla creazione postuma del mito di Giuseppe II, giunto per molti aspetti fino a noi; si pensi alla già citata pellicola hollywoodiana di Forman). Dopo la sua morte il declino del poeta è rapido e inarrestabile: già nel marzo 1791 viene licenziato senza apparente motivo (il suo contratto scade nel 1792) e cacciato dalla capitale da un irritato Leopoldo II il quale sta ora cercando di rimettere ordine nei guasti provocati dalla politica azzardata del defunto fratello. Pur di liberarsene, l’imperatore dà ordine di pagargli interamente l’anno di stipendio dovutogli, a patto che lasci subito Vienna. Inutili si riveleranno i tentativi del poeta di farsi riassumere da un monarca che lo considera un “poco di buono” e che forse teme i suoi complotti. Peraltro nessuno sorge in sua difesa; in particolare Mozart, il quale deve molto al librettista, tace, temendo a sua volta, di finire licenziato. Invece finisce ammazzato il 5 dicembre 1791; e in quel frangente il costernato, “assordante” silenzio sarà quello dei suoi amici: non una parola intorno alla strana morte e alle sospette, frettolose esequie del compositore, si ritrova nei carteggi e nelle Memorie di Da Ponte, di Casanova, del curioso e informatissimo Pietro Zaguri (in costante rapporto epistolare con il bibliotecario di Dux).

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